aggiornato il 16/06/2010 alle 13:50 da

La polemica sul ponte “murattiano o borbonico?” diventa una scusa per attaccare l’Amministrazione Bovino

DSC07822POLIGNANO – Carlo De Luca ha scritto un libro, il Ponte sul burrone, che svela la verità «vera» su un’opera polignanese, risalente agli anni del periodo borbonico. La «verità» sta nell’aver ricostruito con esattezza, compulsando carte e documenti dell’epoca, mangiando polvere d’archivi e respirando afrori d’anticume, studiando cioè, che quel braccio di pietra gettato su Lama Monachile fu ideato e realizzato dai Borbone e che Gioacchino Murat, al quale l’opera è stata immeritatamente attribuita  per due secoli, non c’entra nulla.

Il lavoro, pubblicato a proprie spese dal De Luca, è negletto, a quanto si apprende, dagli amministratori, i quali, continuando a praticare la menzogna della storia, seguitano ad affermare che quel ponte è murattiano e fanno scrivere le loro sciocchezze anche nella lingua dei padroni del mondo, per far sì che anche il mondo apprenda di una menzogna storica. L’autore, giustamente dal suo punto di vista, se ne adonta. Si pensa, più per lo schiaffo vibrato ancora in faccia alla storia che per altro. A nostro modesto modo di vedere, però, Carlo De Luca non dovrebbe adontarsene. Egli ha un peso culturale (chi scrive libri possiede quel pondo). Una ponderosità che, non sempre ma abbastanza spesso, contrasta con la leggerezza degli amministratori, in un rapporto che, se cromatico per esempio, è pari a quello che s’instaura fra la lucentezza di un chiaro e l’opacità di uno scuro. Non parliamo di specifiche entità, che, tra l’altro, misconosciamo; trattiamo nella sua generalità la pochezza culturale che ammanta spesso gli amministratori della cosa pubblica, al sud d’Italia come al centro e al nord.

Pare che il principio fisico, che determina la “creazione” di un amministratore, sia quello che per ironia noi chiamiamo «il principio della mongolfiera». Un aerostato sale nel blu del cielo perché è più leggero dell’aria che lo contorna. Per gli amministratori è lo stesso. Più sono leggeri culturalmente, più in alto salgono. Si provi a fare un giro per le comunità amministrate e si tenti di cavar dalla logorroica bocca di un amministratore cenni e brani di storia della comunità amministrata. Si vedrà quanto assordante sia il silenzio che fluisce o, nella migliore delle occasioni, si potrà ascoltare un flebile balbettio, costruito su espressioni di «mi pare», «si dice», «sembra che», «credo», «ritengo». Tutta una vasta gamma di formulazioni, un farfuglio che dice in maniera indiscutibile dell’ignoranza che l’amministratore ha della «sua»storia.

Eccessivo sarebbe, d’altra parte, il pretendere che l’amministratore sia un profondo conoscitore dell’anima della sua comunità. E «anima » di una comunità è storia, costume, linguaggio, arte, insomma, che ha trovato genesi, nel corso dei tempi, all’ombra di case e di chiese, crocchiate a formare l’ossatura di una comunità. Perché quell’amministratore dovrebbe arrovellarsi a far conoscenza con quell’anima? Egli è chiamato ad amministrare e l’amministrazione, per come la si intende oggidì, è un’operazione «fredda», fatta di qualche idea, spesso scialba, e di molti numeri, che fanno capo ai titoli di bilancio. Per condire questa minestra sciapa l’amministratore grattugia sull’insipida pietanza un po’ di radici di spocchia, che ne fanno il suo pepe e per sale usa granelli di megalomania, che in un amministratore à la page non deve mai mancare in quest’«era dell’apparenza», in cui si vale non certo per quello che si è bensì per quello che si ha.

Il risultato è la sbobba che mangiamo tutti i giorni, vivendo nei nostri paesi, sempre più anonimi, sempre più senz’anima.

Orbene, fiato si sprecherebbe ancora a dibattere della cosa. Carlo De Luca ha scritto un libro di storia del suo paese. In quel libro ha consegnato, e per l’eternità, giacché i libri, come quasi tutte le cose del creato sopravvivono alla temporalità degli uomini, la verità di una storia. Ha fatto il suo dovere di uomo che scruta l’anima della sua patria e ne lascia traccia. Che di quella traccia altri uomini non vogliano pestar le orme, non è questione che possa intrigare chi ha una visione nobile della vita. Del resto, acculturarsi o naufragare nel mare magno dell’ignoranza è pur sempre questione di scelte di vita.

L’assioma è che di fronte alla storia non si può mentire. Prima o poi, la verità viene a galla e quella verità, beccheggiando sulla cresta delle onde, guarda torva quel mare scuro d’ignoranza. Gli restituisce, cioè, quello schiaffo che la menzogna vibra sempre alla verità. E si fa giustizia.

© Riproduzione riservata 16 Giugno 2010

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