aggiornato il 30/06/2021 alle 10:37 da

Giovanni, il Covid non cancella la memoria

Coltivare il ricordo per non sprecarlo, per la dolcezza di sentire vive e presenti le nostre genti. Sul calare di una stagione drammatica, nel vivo di un periodo di ripresa e di rinascita, Fax vuole ricordare e rendere omaggio a quanti nel nostro pese sono stati vittima dell’epidemia da Covid-19, entrato nelle nostre vite per sconvolgerle, cambiando persino i rituali legati alla morte, al ricordo e all’elaborazione del lutto. Tanti in paese hanno perso un padre, una madre, un fratello, un marito, un’amica. Tutti siamo impegnati in una memoria che avvolge le nostre vite, ora più che mai. Rammentare è un antidoto alla solitudine e la narrazione condivisa con gli altri ha un effetto dirompente: non si tratta di una storia individuale ma di memoria collettiva.
L’ultimo messaggio scritto alla moglie il 12 aprile scorso è stato “Amore mio io ti amo” Per Giovanni Lacandela, la famiglia, l’amicizia, la correttezza e la generosità erano valori irrinunciabili. E’ stato un uomo che si è donato agli altri. Durante la maratona della sua vita, si è fermato tante volte a dare aiuto a quanti erano in difficoltà, molti si sono sentiti presi per mano e accompagnati da lui al traguardo “Giovanni era davvero un cavaliere senza macchia, una persona splendida e disponibile, un raro gioiello in un mondo senza più valori” – scrivono i suoi amici – “Fino alla fine increduli che potesse accadere proprio a te, il tennista, il corridore, l’amico di una vita” “Caro amico mio, amico di mille corse, di mille avventure, il vuoto che lasci non è un semplice vuoto ma una voragine”
“Non avremmo mai pensato che il Covid lo avrebbe portato via e questo fino al giorno prima che morisse – raccontano le figlie di Giovani, Annalisa e Antonella – Sapevamo che i polmoni erano compromessi dall’infiammazione interstiziale ma la situazione era stabile, non aveva febbre, il cuore stava bene e quindi credevamo fortemente nella ripresa. Papà è salito con le sue gambe in ambulanza, con il suo zainetto in spalla. Complessivamente stava abbastanza bene, avvertiva solo un po’ di affanno, nulla lasciava presagire l’ aggravarsi della situazione e un epilogo così tragico. Persino gli operatori del 118 non erano certi del ricovero, avvenuto in piena terza ondata, con gli ospedali saturi e i sanitari impegnati con pazienti ben più gravi.”
Giovanni scopre di essere positivo al Covid a marzo. Inizialmente i medici somministrano una terapia domiciliare che sembra stabilizzarlo, tanto che Il 16 marzo scrive sui social un messaggio per comunicare agli amici che le sue condizioni di salute erano buone e che augurava a tutti un’infinità di bene “Lui era un combattivo, non si arrendeva mai, non era un’allarmista e affrontava gli ostacoli.” Il 21 marzo il livello di ossigenazione del sangue peggiora e i medici del 118, chiamati perché il saturimetro non registrava valori incoraggianti, decidono di accompagnarlo al San Giacomo di Monopoli. Il giorno successivo viene trasferito a Villa Santa Lucia “Fino a quando è stato a Villa S. Lucia, era come se fosse a casa. Riuscivamo ad avere informazioni dirette sul suo stato di salute e sulle sue condizioni, comunicavamo spesso tramite messaggi, lo sentivamo vicino, ci raccontava delle sue difficoltà” Ma la mattina del 13 aprile la situazione peggiora, e Giovanni viene trasferito d’urgenza nella terapia intensiva del Policlinico di Bari “In quel momento si è verificato il distacco e la lontananza fisica e morale ha cominciato a essere tangibile. Dal 13 aprile, non lo abbiamo più sentito. I medici ci telefonavano giornalmente per darci l’aggiornamento quotidiano, ma finiva là. Il Covid è un virus imprevedibile che non permette di fare previsioni, tutto dipende dalla forma in cui attacca. Non è bastata la terapia, la maschera venturi e il casco Cpap, che nei giorni antecedenti l’intubazione portava per quasi 24 ore al giorno sopportando uno sforzo fisico veramente importante, al limite della sopportazione umana, a dire dei medici. Questo per dire che lui ha lottato come un leone. Ha provato fortemente a vincere la battaglia, uscire dalla situazione e tornare nella sua casa e dalla sua famiglia. Ma il virus ha deciso di aggredire e non ha lasciato scampo. No ci sono regole con questa malattia”
La separazione dai propri cari al tempo dell’epidemia da Covid-19 appare ancora più spietata perché nega il rito di passaggio che permette a livello emotivo di prepararsi al commiato, al saluto e disporsi al lutto “Ciò che maggiormente ci ha turbato e che ancora ci agita è la sensazione che le persone colpite dal Covid, in realtà spariscano. Scompaiono all’improvviso. Mia madre ha guardato mio padre salire in ambulanza con le sue gambe e il suo zainetto, tranquillo come era sempre, e poi non l’ha mai più rivisto vivo e né lui ha potuto vedere nessuno di noi. Resta il rimpianto di non aver potuto dare un abbraccio, un saluto, uno sguardo di conforto, questo è l’aspetto che turba di più. A un certo punto, si perdono i contatti, si chiude la comunicazione. Ancora adesso ci chiediamo se sia veramente accaduto. Il senso di incredulità è alto, è come se fossero venuti gli alieni e avessero preso papà che è sparito nel nulla. Eppure noi siamo riusciti a vedere e a vestire la sua salma, perché in ospedale, ironia della sorte, papà si era negativizzato: lui non è morto per il virus che era riuscito a debellare ma per la reazione del tuo organismo alla guerra. E’ come essere parte di un puzzle in cui mancano dei pezzi essenziali.”
“Si dice che il tempo guarisca le ferite ma non è così – racconta Anna Muolo, moglie di Giovanni, un amore enorme il loro, tenuto vivo per ben 47 anni – Sono due mesi che è andato via, ma per me non è cambiato niente, soffro come il primo giorno. Lui è morto e la cosa che mi fa più rabbia, che non riesco proprio ad accettare, è sapere che gli è stata negata la possibilità di avere accanto una persona amata, per poter ricevere un ultimo abbraccio. Lui e tutti gli altri malati di Covid sono stati isolati, messi da parte, abbandonati, dimenticati. Loro sono morti disperati. Sono convinta che mentre soffrivano avrebbero voluto vedere attraverso i vetri il volto di un loro caro, ma questo non è stato mai permesso e quindi per me Giovanni e gli altri, sono morti disperati e ben consapevoli della loro situazione. Questa è la cosa che mi fa più male e che probabilmente non riuscirò a superare mai. Non sono riuscita a stargli vicino negli ultimi momenti della sua vita, non gli ho stretto la mano, né fatto una carezza, niente. E’ morto, isolato, disperato, senza vedere un viso familiare, privo di un contatto, di una parola d’amore pronunciata anche solo attraverso il vetro. Qualcosa poteva essere fatto, siamo nel 2021 ed è impensabile che si programmi di tornare sulla luna ma non si sia pensato per tempo di creare un separé che permettesse ai malati di Covid di poter vedere le persone amate. Non pretendevo la vicinanza, ma almeno uno sguardo attraverso i vetri. Per mio marito e per gli altri sarebbe stato un enorme aiuto morale poter avvertire la vicinanza dei propri cari. Gli avrebbe dato la forza di andare avanti. Invece lui e gli altri sono stati abbandonati e sono morti nella disperazione e questo non lo perdonerò mai al Governo e alle altre istituzioni, perché se si può fare ora si sarebbe potuto fare allora. Ti mando un bacio Giovanni” Dopo una sola settimana dalla sua morte è stata approvata la legge regionale che ha reso fattibile anche per la Puglia l’applicazione dei Protocolli di Umanizzazione delle Terapie Intensive Covid.
Un nonno speciale, sempre presente, dolce. Si fermava a dialogare sempre con tutti. Tanti i suoi interessi, in primis lo sport, che ha trasmesso a figlie e nipoti, anche a livello agonistico. Il suo primo amore è stato il tennis, poi una tendinite lo ha portato a riversare la sua tenacia nella corsa “Ultimamente non riesco più a correre – racconta Antonella – Quando sono tornata a Torino, dopo il funerale, ho subito indossato la sua maglietta e i suoi pantaloncini e ho iniziato a correre. Poi è come se si fosse spezzato qualcosa. La corsa era il nostro interesse comune, anche se era lui il vero runner. Papà è stato qualcosa di indescrivibile. Non l’ho mai sentito pronunciare una parola negativa o cattiva su qualcuno, eccetto sui politici. Lui predicava la pace e l’armonia, la serenità nella vita. Quello con mamma è stato un amore grande, coltivato per più di 50 anni. Si conoscevano da sempre, perché papà era un caro amico del fratello gemello di mia madre. Anche i nostri amici li indicavano come la coppia più bella del mondo, gli eterni fidanzati. Mio padre non ha mai smesso di corteggiarla e coccolarla: andavano al mare fino novembre insieme, facevano dei piccoli viaggetti in Salento, le faceva trovare i regali sotto il cuscino. Papà era così, lui c’era sempre per lei e per noi. Mamma ancora adesso a volte si aspetta che rientri dalla porta con le buste della spesa in mano.”
Un cuore gentile capace di spendersi sempre gli altri: il 5 marzo, poco tempo prima della scoperta della positività al virus, si era unito al comitato di protesta raccolto presso il Tribunale di Bari, per dimostrare solidarietà a due operai, suoi amici, licenziati dalla Skf Bari perché ritenuti responsabili di aver manovrato maldestramente un macchinario e bloccato la produzione “Lui era accogliente, si donava a tutti indistintamente. La sua politica è sempre stata rivolta all’aiuto, l’egoismo e la sopraffazione lo hanno sempre irritato.”
Uno spirito solidale innato animava ogni suo gesto. Anche nello sport si avvicinava ai più fragili a cui lo univa un senso di responsabilità profondo. Tutti ricordano quando in una mezza maratona disputata a Barletta decise, per giungere insieme e in sicurezza al traguardo, di legarsi a Gianfranco, un podista ipovedente conosciuto in quella occasione, incarnando il vero spirito sportivo; non a caso era chiamato il gentleman della corsa “Lui amava la dimensione della corsa nel suo insieme, amava ciò che essa rappresentava, amava il contorno dell’evento: lo stare in compagnia, l’uscita comune, l’amicizia e la bellezza di condividere i momenti con gli altri, la preparazione. Non gli importava essere il primo, per lui era importante riuscire a superare l’ostacolo, come quando partecipò nel 2015 alla Maratona di Roma: era felicissimo di aver tagliato il traguardo riuscendo a fare anche un buon tempo.”
“La cosa che papà ci ha lasciato è sicuramente il senso dell’amicizia e il suo valore. Parliamo di amicizia vera, disinteressata. Noi abbiamo sempre avuto tanti amici, la nostra casa era sempre aperta a tutti. Io e mia sorella abbiamo avuto un’ infanzia e un’adolescenza bellissime. Non abbiamo mai provato la sensazione di doverci difendere da lui o da mia madre. Loro sono sempre stai nostri alleati, sono stati la nostra rete di salvataggio: noi eravamo delle trapeziste e loro le reti. Ora un palo si è spezzato e tutto è diverso. Nulla sarà più come prima. Abbiamo deciso di dare a mio figlio Raffaele, primo nipote, la collana che papà teneva sempre al collo con tre simboli: il crocifisso, perché lui era credente, il simbolo della famiglia e il simbolo della pace, i tre pilastri su cui papà ha fondato la sua vita. Il vero insegnamento che ci lascia è di vivere in armonia, senza litigi, perché una soluzione si trova sempre. Prima della sua morte non avevamo contezza di quanta gente gli volesse bene. Da quando è morto ogni giorno, ancora oggi, riceviamo messaggi da persone che non conosciamo, ma che conoscevano lui e che vogliono farci sapere del dispiacere provato per aver perduto un amico così importante. Lui amava Conversano e amava la gente. Noi siamo orgogliose che sia stato il nostro papà, per noi è motivo di enorme fierezza.”

© Riproduzione riservata 30 Giugno 2021

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